La Corte Costituzionale è stata investita della decisione relativa alla posizione del lavoratore quando non viene dimostrata la sussistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento e che quindi il rapporto di lavoro, instaurato dopo il 7 marzo 2015, sia assoggettato
alle previsioni degli artt. 3 e 9 del d.lgs. n. 23 del 2015, che dimezzano l’indennizzo spettante al lavoratore ingiustamente licenziato e pongono il limite invalicabile delle sei mensilità dell’ultima retribuzione percepita.
La questione è stata dichiarata inammissibile, tuttavia la Corte ha fornito preziose indicazioni.
L’indennità prevista «nello stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità» potrebbe essere, secondo una delle tesi, inidonea, pertanto, «a soddisfare il test di adeguatezza» e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata e comunque adeguata e sufficientemente dissuasiva.
La questione è stata rimessa prospettando il contrasto con gli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea che così dispone:
- Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere:
a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta
o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio;
b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.
A tal fine, le Parti si impegnano a garantire che un lavoratore, il quale ritenga di essere stato oggetto di una misura di licenziamento senza un valido motivo, possa avere un diritto di ricorso contro questa misura davanti ad un organo imparziale.
La questione quindi si muove tra due diverse visione che vedono da un lato l’adeguatezza, la personalizzazione e la dissuasività di un comportamento lesivo del diritto all’occupazione e dall’altro la compressione del diritto all’indennizzo legato alle piccole dimensioni dell’azienda.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri si è costituita chiedendo di dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale.
Opinioni scritte sono state presentate da alcune associazioni ed organizzazioni sindacali.
La Corte Costituzionale ha quindi deciso rappresentando che
“Nel condividere le censure di illegittimità costituzionale formulate dalla parte ricorrente, il rimettente
argomenta che la previsione di un indennizzo non superiore alle sei mensilità, senza neppure l’alternativa
della riassunzione, non attuerebbe un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti.
In particolare, la disposizione censurata, «nella parte in cui determina un limite massimo del tutto
inadeguato e per nulla dissuasivo», non garantirebbe «un’equilibrata compensazione» e «un adeguato
ristoro» del pregiudizio e non assolverebbe alla necessaria funzione deterrente.
Un’indennità così modulata rappresenterebbe «una forma pressoché uniforme di tutela» e attribuirebbe
rilievo esclusivo al «numero degli occupati», elemento «trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale
economia». Non sarebbero valorizzati, al contrario, i molteplici criteri che questa Corte ha individuato nelle
sentenze n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, allo scopo di adeguare il risarcimento alla peculiarità del caso
concreto.”
e che
“Al generico richiamo all’art. 44 Cost., neppure ribadito nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, non
corrisponde un’autonoma censura, che concorra a definire il thema decidendum devoluto all’esame di questa
Corte.“.
Secondo la Corte
“un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i
criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come
extrema ratio.
“il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, che, a ben vedere, non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro, né la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete.
Invero, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli.
Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.
In conclusione, un sistema siffatto non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.”
Altre considerazioni su indennizzo licenziamento della Corte sono il riconoscimento del vulnus denunciato dal rimettente e l’affermare della necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti.
La questione sarà certamente fonte di confronti e dibattiti futuri che si terranno in tutte le sedi di confronto sindacale e politico che si cumula, ma non si fonde, con il grande dibattito generato dalle sentenza 194/2018 e 150 del 2020.
Per chi ritiene di approfondire questo è il testo della sentenza
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