Cessazione del rapporto di lavoro: il preavviso è sempre obbligatorio?


Uno degli istituti giuridici più noti in caso di cessazione del rapporto di lavoro è il preavviso:

la parte che decide di recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro, deve comunicarlo all’altra concedendo un tempo sufficiente secondo le regole del contratto di lavoro.

Questa previsione apparentemente semplice lascia spazio ad una serie di interrogativi dalla portata davvero ampia e se non si conoscono le risposte esatte, si rischia di incorrere in errori con conseguenze gravissime dal punto di vista giuridico economico.

Il preavviso di licenziamento non è l’unica possibilità atteso che si può configurare anche, da parte del lavoratore, come preavviso dimissioni.

Come si quantifica il periodo di preavviso che devo dare se decido di andarmene o che posso pretendere se è l’altra parte che ha deciso di cessare il rapporto di lavoro?

Il diritto del lavoro non sempre è esattamente codificato. Questo significa che non esiste un codice principale, da consultare congiuntamente alle norme correlate, per trovare tutte le risposte (come invece accade ad esempio per il diritto penale). Al contrario, è necessario fare riferimento ad una vasta gamma di fonti, spesso frazionate e disorganiche, tra le quali può districarsi adeguatamente solo chi conosce il settore in maniera approfondita: ci sono le leggi, i regolamenti, i contratti collettivi, la contrattazione di secondo livello, il contratto di lavoro (che però non può mai fissare regole peggiorative nei confronti del lavoratore rispetto a quanto stabilito nei contratti collettivi) e in certi casi è necessario perfino tenere conto di usi e costumi locali.

Nel caso del periodo di preavviso, la fonte del diritto con maggior rilievo è la contrattazione collettiva. Infatti, come spesso accade in questo genere di circostanze, aver compreso di dover fare riferimento a questo anziché quel contratto collettivo è solamente il punto di partenza.

Per prima cosa è necessario capire con assoluta precisione quale sia il contratto collettivo applicato o da applicare in azienda: nel medesimo settore infatti possono coesistere numerosi C.C.N.L. dei quali possono risultano firmatarie solo alcune organizzazioni sindacali anche datoriali. Inoltre è ampiamente diffusa la prassi di indicare nel contratto di assunzione solamente il settore di appartenenza (ad esempio commercio o turismo) senza specificare in maniera puntuale e assoluta quale sia il preciso contratto collettivo applicato (Questo modo di procedere ancora largamente diffuso è in netto contrasto con le regole stabilite dal recente Decreto Trasparenza, in attuazione delle direttive dell’Unione Europea).

Spesso le regole statuite nel medesimo settore sono similari ma non sono mai del tutto sovrapponibili: la chiave di lettura per identificare il C.C.N.L. applicato, è quella di basarsi sulla classificazione ufficiale fornita dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Questo istituto, più comunemente noto semplicemente con l’acronimo di CNEL, mette a disposizione l’archivio ufficiale nazionale presso il quale devono obbligatoriamente essere depositatati tutti i contratti collettivi e le relative integrazioni.

Ci sono poi casi in cui le parti che avevano stipulato il contratto collettivo applicato nel momento in cui ha avuto origine il rapporto di lavoro non si sono più trovate a concludere davanti allo stesso tavolo con la conseguenza di una prolificazione di contratti collettivi ovvero di una prosecuzione con parti variate.

Certamente muoversi nell’ambito della contrattazione collettiva non è facile.

Una volta identificato il contratto collettivo applicato o da applicare, è necessario consultarlo minuziosamente, congiuntamente ai successivi accordi integrativi, per individuare le regole in materia di preavviso, tenendo conto di tutte le specifiche variabili.

Molto spesso infatti, i contratti collettivi prevedono indicazioni differenti in base agli elementi del rapporto di lavoro, come l’anzianità di servizio e il livello di inquadramento.

La sovrapponibilità dei trattamenti di disoccupazione con l’indennità di preavviso.

Preavviso licenziamento – può capitare che l’INPS, verificando situazioni anomale (come ad esempio il licenziamento per superamento del periodo di comporto la cui casistica tipizza una interruzione improvvisa del rapporto di lavoro)  si attivi per conoscere se al lavoratore sia stata o meno erogata l’indennità del preavviso.

Esiste, una volta cessato il rapporto di lavoro, il problema della sovrapponibilità tra indennità di preavviso e fruizione delle indennità di mobilità (o Naspi).

La Corte di Cassazione civile Sezione Lavoro con pronuncia 22154 del 13 luglio 2022 lo ha escluso nel senso che se il lavoratore ha fruito dell’indennità sostitutiva del preavviso per il corrispondente periodo il trattamento di aiuto pubblico non è applicabile.

Ma il preavviso (o l’indennità di preavviso), è sempre obbligatorio?

Non è certamente obbligatorio nel caso in cui ci si trovi in presenza di un rapporto di lavoro nullo come precisato dalla Corte di Cassazione Civile Sezione Lavoro con la sentenza 28330 del 29 settembre 2022.

Più delicata è la valutazione del caso del contratto di lavoro a termine.

L’Art. 2118 del codice civile tratta la materia del Recesso dal contratto a tempo indeterminato.

Secondo questa disposizione : –

“Ciascuno dei contraenti puo’ recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equita’.

In mancanza di preavviso, il recedente e’ tenuto verso l’altra parte a un’indennita’ equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

La stessa indennita’ e’ dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.”

Detto questo pare evidente che secondo la legge il preavviso è previsto solo per i rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Questo non significa che nei rapporti di lavoro a tempo determinato non sia possibile prevederlo, ma se manca nella struttura contrattuale che le parti hanno voluto una espressa previsione in tal senso viene meno quel minimo di riferimento attuativo di una regola che, pur entrata nell’uso comune, è tutta da dimostrare ogni volta che ne viene rivendicata l’applicazione.

Resta invece da considerare ogni altro aspetto legato alla mancata osservanza dell’impegno assunto riguardo al tempo della prestazione lavorativa che, pur rimanendo esclusa dall’ambito del citato articolo 2118 del codice civile, può sempre essere considerata ai fini risarcitori laddove le ragioni non siano rinvenibili in situazioni di giusta causa rivendicabili dall’una o dall’altra parte.