“Si è sempre fatto così e così continuo a fare“. Questa frase è tipica di chi applica la prassi in modalità automatica senza confrontarsi con adeguata considerazione ed attenzione.
È una forma deviata, simile al risparmio energetico, che chi esercita un’attività con passione probabilmente non capisce.
Tra frasi fatte e concetti più o meno adeguati molti si trovano la loro più congeniale “comfort zone”.
È proprio concentrandosi sugli inglesismi che, tuttavia, viene in mente un altro termine che è quello del c.d. “Problem Solving”.
Ci adagiamo o risolviamo il problema?
Che si parli di prassi aziendale, di prassi amministrativa o di prassi consolidata poco importa.
Ci adagiamo o ci attiviamo con tutte le nostre capacità per trovare una soluzione?
È sul confronto di questi due concetti che si pone anche il ruolo della passione per il lavoro a prescindere dal fatto che si tratti di professionista o dipendente.
La prassi e l’ingannevole forza persuasiva della prassimatica
Sgombriamo il campo dai frantendimenti, la prassi non è negativa tout court.
Quando Carlo Marx diceva che è con la prassi che l’uomo afferma la sua verità e il suo potere non sbagliava, del resto anche il nostro codice civile prende in considerazione la consuetudine come fonte.
Tuttavia, questa affermazione – che è con la prassi che si dà vita ad una realtà e la si cambia – deve essere interpretata avendo ben presente cosa intedesse Marx per prassi – anzi, praxis – ovvero ogni forma di attività umana, sia pratica che teorica, una vera e propria attività produttiva concreta, cioè, in grado di modificare l’oggetto del suo stesso produrre.
Quando però la prassi degenera nella “prassimatica” e arriva ad offendere la ragionevolezza ed i principi del diritto la concezione marxista viene meno e si comprende come due espressioni apparentemente così lontane di fatto convergano su un unico punto:
Prassi perverse creano realtà perverse.
La c.d. comfort zone è la parte più inanimata – e pericolosamente paludosa – del professionista, quella che si pone davanti ad un problema trovando non tanto la soluzione al problema, ma il problema al problema di risolvere quel problema. Sembra un giro di parole, ma purtroppo è sempre più spesso la realtà dei fatti.
Il prassimatico, per sua intima convinzione, risolve il suo problema ricorrendo alla mera prassi, il professionista pensante ragiona, si confronta, approfondisce, non dà niente per scontato e decide “pragmaticamente” sul da farsi per risolvere il problema di chi gli sta di fronte.
Il concetto di comfort zone impone una serie di considerazioni tra cui la necessità di dedicare meno energia possibile alla soluzione; qualunque essa sia. Sì perché il rischio più pericoloso di una (troppo comoda) prassimatica è che si cominci a “lavorare alla meno”.
Uscire dalla comfort zone significa attivare i neuroni e mettere in moto processi critici finalizzati a risolvere il problema che viene posto: è un po’ come – se c’è qualcuno che ama la pesca comprenderà piuttosto bene il parallelismo – decidere di abbandonare le acque calme ma stagnanti di un piccolo laghetto artificiale dove le trote nuotano lente, grasse e abbondanti per tornare a provare l’ebrezza wild & free della pesca in natura. Sarà più challenging – sempre per mantenere un tono internazionale – ma sicuramente anche più appagante e divertente.
Forse qualche esempio più concreto potrà essere utile a chiarire il concetto.
Se due vicini hanno dei problemi riguardo alle rispettive proprietà le strade che si parano loro davanti sono sostanzialmente due: si può trovare l’avvocato che suggerisce subito una causa oppure l’avvocato che invece si mette alla ricerca di una soluzione alternativa, “più creativa”. Sosteneva Pablo Picasso – uno che di genio e creatività qualcosa ha saputo trasmettere – che “il principale nemico della creatività è il buonsenso”. Noi potremmo interpretare queste parole dicendo che il principale nemico di una soluzione “ragionevole” sia un procedimento prassimatico. Ma torniamo ai nostri due avvocati.
Il primo quindi si pone il problema secondo prassi garantendosi comunque di come incassare subito la prima parte della parcella, l’altro, invece si pone di fronte al problema del suo assistito con tutto l’armamentario che la formazione e l’esperienza gli suggeriscono e tenta di ragionare sulle alternative, utilizza cioè un approccio più “pragmatico”. Ma non solo, perché tra prassi e passione ciascuno si ritaglia il ruolo e il riconoscimento che merita nella professione.
Stessa cosa vale per altri professionisti con i quali siamo soliti confrontarci e dalle cui bocche escono solo parole del tipo “la circolare afferma che…, la nota del tale ufficio fornisce indicazioni di … ” . In apparenza non c’è nulla di male nello sfoggiare tanta conoscenza di prassi, tuttavia se quando si arriva di fronte ad una soluzione imposta da una amministrazione in modo palesemente contrario alla legge e ai principi fondamentali di essa, il continuare ad affermare la valenza della nota e della circolare altro non rappresenta che la più alta evoluzione della “prassimatica”; ovvero della sovversione delle fonti del diritto nel senso che si antepone l’automaticità della prassi alla logica ed alla matematica giuridica.
Chi è il Prassimatico?
Il “prassimatico”, questo è il nome che si dovrebbe attribuire a chi vive solo di regole prefatte, quindi antepone l’abitudine e la comfort zone alla soluzione del problema dell’altro. Ovvero ragiona su come risolvere e riscuotere da solo il suo problema attraverso la solo apparente soluzione del problema dell’altro.
Sotto il profilo giuridico si deve rilevare come il legislatore spesso intervenga con strumenti che mirano all’efficacia di un sistema (come sta avvenendo nei vari interventi in materia di contenzioso civile) introducendo attività come l’obbligo di tentare la conciliazione attraverso mediatori oppure altre soluzioni come la negoziazione assistita. E ciò deve far riflettere sul motivo per il quale si arriva a questo che ha l’evidente scopo di amplificare la necessità di un confronto e al dialogo prima di arrivare allo scontro giudiziale.
Altro aspetto deve essere considerato in relazione alle attività che si vanno ad inserire in contesti pluridisciplinari che richiedono l’intervento di più specializzazioni che possono essere contenute sia da più appartenenti alla medesima qualifica professionale che da appartenenti a vari contesti professionali.
È in questo quadro che si inseriscono le varie insistenze delle attività professionali. Un conto è voler lavorare sul cliente facendo della sua fiducia il perno assoluto della nostra attività un altro conto è ascoltare, capire il problema, confrontarsi in modo trasparente con il cliente ed attivarsi per collaborare con chi è in grado di aiutare a risolvere quelle criticità e quei vuoti professionali che ciascuno può avere specialmente quando si tratta di rapporti complessi.
Chi tratta il rapporto con il cliente con istinto possessorio tendenzialmente mira ad un monopolio che necessita di sola apparenza e quindi funziona bene il dire “si è sempre fatto così, cos’altro potevamo fare”.
Ma è qui dobbiamo ricordarci che siamo liberi di scegliere e che dobbiamo essere assolutamente consapevoli delle nostre possibilità di scelta: siamo dotati di discernimento e della capacità di porsi domande e di mettere in dubbio quello che non ci torna. Siamo pratici, anzi, pragmatici, facciamoci delle domande, allora, e facciamocele sempre:
- Quello che si sta facendo è utile?
- La soluzione scaturisce da un contesto ragionato o è la mera applicazione di prassi?
- A chi effettivamente serve?
- Ci sono alternative?
- La genesi del problema si può risolvere solo con gli strumenti di quel professionista?
- Chi hai di fronte è in grado di prendere decisioni ed assumersene, nei limiti della sua professione, il rischio?
E poi, c’è bisogno delle competenze di altri professionisti ?
Il monopolista prassimatico tende a mantenere l’intero controllo sul cliente e quindi cerca di tenerselo a tutti i costi, e questo lo porterà a non coinvolgere altri professionisti.
Il possesso esclusivo del cliente – la difesa senza fine dell’orticello – è lo scenario tipico di alcune aree geografiche in cui c’è poco lavoro. È infatti in quadri di questo tipo che alcuni contribuenti e clienti sono portati a credere – e sono pericolosamente convinti di questo – che un solo professionista possa avere le capacità e le competenze per risolvere tutto. Non è così, le bacchette magiche (purtroppo) non esistono.
Un tempo forse era così, quando ancora bastava solamente sapere si un’avvocato fosse civilista o penalista, adesso non lo è più.
Oggi quando mi chiedono se sono un giuslavorista rispondo che non so neppure cosa sono perché assisto le aziende (a volte il lavoratore) e cerco, con quel poco che so fare, di difenderle mettendo in campo tutte le conoscenza che in oltre 40 anni di attività ho, seppure su più fronti, imparato.
Prima redigevo i verbali oggi li contesto; come potrei definirmi? Scuramente però, essere stato prima da un lato e poi dall’altro della barricata mi ha permesso di sviluppare un senso pragmatico che mi porta a non scegliere approcci risolutivi standardizzati.
Ed è proprio grazie a questo senso pratico e critico che non posso non accorgermi di realtà in cui ad esempio il contribuente è stato informato che l’unico modo per avere il DURC, anche se aveva valide ragioni per opporsi alle pretese di premi e contributi, è chiedere la dilazione all’ente.
Poi, quando il cliente, stanco di un pagamento che ritiene vessatorio va dall’avvocato e apprende che non si può far niente avendo lui accettato il debito rinunciando ad ogni contestazione sono dolori, ma è tropo tardi.
Il contribuente, una volta accettato incondizionatamente il debito si può solo rivolgere alle comfort zone della prassimatica con grandi difficoltà nel poter provare la responsabilità di terzi.

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