Il Dlgs 158/2015 (articoli 15 e 16) attuativo della Riforma Fiscale, ha introdotto novità in termini di riduzione della sanzione (dimezzata dal 60% al 120% dell’imposta) per chi presenta la dichiarazione oltre i 90 giorni dalla scadenza ma entro il termine dell’anno successivo (da € 150 a € 500 se non sono dovute imposte), a patto che non abbia avuto inizio
qualunque attività accertativa di cui il contribuente abbia avuto formale conoscenza.
Se dalla dichiarazione tardiva emerge un’imposta dovuta, il contribuente dovrà versare una sanzione per l’eventuale omesso o insufficiente pagamento delle imposte (Agenzia delle Entrate – circolare n. 23/E/1999), punibile con la sanzione amministrativa pari al 30% di ogni importo non versato.
Possibile anche in questo caso avvalersi del nuovo ravvedimento operoso.
Omessa dichiarazione dei redditi a scopo evasivo
Per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi a scopo evasivo è inoltre prevista una pena con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 4 anni per imposte IRPEF e/o IVA fino a 50.000 euro. Oltre tale soglia scatta, il reato penale.
Il reato di omessa dichiarazione, come modificato dalla novella di cui al suddetto D.Lgs. 158/2015, prevede rispetto al passato una pena aumentata, oggi da 1 anno e 6 mesi a 4 anni. Tuttavia, è stato altresì previsto un aumento della soglia di punibilità, che passa da 30.000 a 50.000 euro.
La fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 5, D.Lgs. 74/2000 è un tipico esempio di reato omissivo, di natura propria, in quanto può essere realizzata da chi, in forza della normativa tributaria, sia tenuto alla presentazione della dichiarazione prevista con riguardo a detti tributi. Giurisprudenza costante ha confermato più volte che il reato in questione può essere integrato solo da chi, secondo la legislazione fiscale, è obbligato alla relativa presentazione.
Natura del reato omissivo
La natura di reato omissivo proprio comporta che “l’affidamento a un professionista dell’incarico di predisporre e presentare la dichiarazione annuale dei redditi non esonera il soggetto obbligato dalla responsabilità penale per il delitto di omessa dichiarazione (articolo 5, D.Lgs. 74/2000), in quanto, trattandosi di reato omissivo proprio, la norma tributaria considera come personale e non delegabile il relativo dovere; tuttavia, la prova del dolo specifico di evasione non deriva dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo né da una “culpa in vigilando” sull’operato del professionista che trasformerebbe il rimprovero per l’atteggiamento antidoveroso da doloso in colposo, ma dalla ricorrenza di elementi fattuali dimostrativi che il soggetto obbligato ha consapevolmente preordinato l’omessa dichiarazione all’evasione dell’imposta per quantità superiori alla soglia di rilevanza penale” (Cassazione, n. 37856/2015).
Per quanto concerne l’elemento psicologico, conformemente a quanto richiesto per l’integrazione degli altri delitti dichiarativi, il reato in esame è punito a titolo di dolo specifico, ossia nell’agente deve esservi coscienza e volontà finalizzata a uno scopo (nel caso concreto, di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto).
A tale proposito, la Suprema Corte ha chiarito che “la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (articolo 5, D.Lgs. 74/2000), può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta” (Cassazione, n. 18936/2016).
L’articolo 1, lettera f), D.Lgs. 74/2000 e la definizione di imposta evasa Posto che, per la realizzazione del reato di omessa dichiarazione, l’imposta evasa deve essere superiore a 50.000 euro.
Quando si parla di “imposta evasa” si fa riferimento alla definizione offerta dall’articolo 1, lettera f), D.Lgs. 74/2000, ai cui sensi: “si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o di scadenza del relativo termine”.
Il Giudice di merito per condannare l’imputato per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, deve stabilire in che modo ricostruire l’importo dell’imposta dovuta. La Giurisprudenza di legittimità si è pronunciata più volte proprio per fornire dei criteri guida che possano rivestire il grado di accertamento del fatto in sede penale.
La Corte di Cassazione
La domanda essenziale da porsi: il giudice penale può avvalersi solamente delle risultanze degli eventuali accertamenti tributari e di quanto contenuto nel processo verbale di constatazione oppure può (o meglio, deve) procedere in via autonoma all’accertamento?
A tale domanda, la Corte di Cassazione si è espressa in una serie di pronunce di seguito le più recenti e significative. In primis, occorre sottolineare come, in fase di indagini, “ai fini della contestazione del reato di cui all’articolo 5, D.Lgs. 74/2000 la determinazione delle imposte evase, in assenza di elementi che facciano ritenere l’esistenza di poste passive, può essere effettuata anche tendendo in considerazione i soli ricavi aziendali” (Cassazione, n. 35773/2015).
Ciò significa che l’autorità inquirente, in mancanza di dati aziendali comprovanti l’effettivo sostenimento dei costi, può legittimamente considerare solo i ricavi in assenza di elementi che facciano ritenere l’esistenza di poste passive.
Per quanto concerne invece il compito demandato all’Autorità giudicante, con la sentenza n. 6823/2015 il giudice di legittimità ha innanzitutto chiarito che “l’accertamento presuntivo, ammesso in sede tributaria, non può trovare ingresso in sede penale, in quanto il giudice è tenuto a verificare la sussistenza della violazione a mezzo di specifiche indagini che possano far luce sulla fondatezza o meno della tesi accusatoria: ai fini della individuazione del superamento o meno di essa, D.Lgs. 74/2000, ex articolo 5, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare della imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi o anche a entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata innanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria” (Cassazione, n. 21213/2008 e n. 36396/2011).
Cosa ha stabilito la Suprema Corte
Ai fini della configurabilità del delitto di omessa presentazione di dichiarazione Iva, la Suprema Corte ha statuito che è rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, “da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario” (Cassazione, n. 38684/2014).
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