Come spesso avviene in questo Paese, davanti ad un vuoto normativo tocca alla giurisprudenza colmare la lacuna. Sebbene in questi casi spesso sorgano dubbi giustificati – a cui non sempre si riesce a dare un altrettanto giustificata risposta – nel caso specifico che stiamo per analizzare, sembra invece che il Giudice non solo abbia “ragionevolmente” colmato il gap, ma sia stato in grado di far prevalere – almeno per una volta – il buon senso. Ma entriamo nello specifico della questione.
Il caso Udine
Lo scorso 27 maggio – sentenza n° 20 – il tribunale del lavoro ha sancito che un rapporto di lavoro è da ritenersi definitivamente risolto se sussistono dei fatti concludenti, ovvero qualora sia il lavoratore sia il datore di lavoro abbiamo entrambi palesato, nei loro comportamenti sostanziali ed effettivi, la reciproca volontà di non dare più seguito al contratto in questione.
Questo anche per motivazioni diverse delle parti e, soprattutto, anche davanti alla mancata formalizzazione delle dimissioni da parte del lavoratore, come richiederebbe invece la modifica legislativa del 2015 (art. 26 del d.lgs. n. 151/2015 e Decreto Ministeriale attuativo del 15 dicembre 2015) secondo cui le dimissioni volontarie e la conseguente risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, debbano venire effettuate – a pena di inefficacia – solo per via telematica, attraverso una precisa procedura online sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Succede infatti nel nostro caso, che una lavoratrice si sia rivolta al Tribunale di Udine per far accertare la nullità del provvedimento di scioglimento del rapporto di lavoro da parte della società per la quale lavorava adducendo come motivo proprio questo vizio di forma.
Il Giudice però ha respinto la sua richiesta e ha confermato la validità di tale risoluzione, dando così ragione alla società che sosteneva che tale rapporto di lavoro era da ritenersi concluso inquanto la lavoratrice, con il suo comportamento, avrebbe di fatto rassegnato in modo sostanziale le proprie dimissioni.
Infatti, a seguito della sua prolungata e ingiustificata assenza dal luogo di lavoro e nonostante l’invito formale a riprendere servizio, il datore di lavoro si è visto costretto a comunicare al Centro per l’Impiego di competenza la cessazione del rapporto con causale“dimissioni”.
Dimissioni del lavoratore di fatto. I motivi della decisione.
Da un lato, quindi, secondo il Giudice c’è stata la lavoratrice che con il suo atteggiamento ha dimostrato nei fatti la propria volontà a concludere il rapporto di lavoro e d’altro la società che, non avendole più versato lo stipendio e avendola invitata a dimettersi, ha dato prova a sua volta di non avere più interesse a proseguire nel rapporto.
In altre parole, il Giudice ha riscontrato nel comportamento effettivo che entrambe le parti hanno tenuto l’una nei confronti dell’altra, la manifestazione evidente di una volontà reciproca e coincidente a non dare più seguito al contratto di lavoro – anche se per ragioni diverse, come abbiamo avuto modo di sottolineare prima – definendone così la risoluzione per fatti concludenti.
Secondo il Giudice del Lavoro, quindi, le due parti hanno dato luogo ad un reciproco affidamento sull’avvenuta conclusione del contratto, affidamento che noi sappiamo essere tutelato dal nostro ordinamento in base all’interpretazione dei principi di “correttezza” e “buona fede” disciplinati rispettivamente dall’articolo 1175 e 1375 del Codice civile.
E proprio su questo punto dell’affidamento, il Giudice ha richiamato quanto affermato dalla Cassazione (Cass. 28.4.2009 n. 9924 e Cass. civ. – Sez. L, Sentenza n. 6900/2016): “il comportamento… del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, è idoneo come tale (essendo irrilevante qualificarlo come rinuncia tacita ovvero oggettivamente contrastante con gli anzidetti principi) a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva”.
L’art. 26 nasce dal presupposto di volere arginare il cosiddetto fenomeno delle “dimissioni in bianco”, vergognosa pratica che tutti noi sappiamo bene consiste nel far firmare al lavoratore – ma soprattutto, alle lavoratrici – le proprie dimissioni al momento dell’assunzione, e quindi ha l’obiettivo di disciplinare l’eventualità in cui la volontà del lavoratore si palesi concretamente.
Non è però questo il caso della nostra lavoratrice friulana, che ha sostanziato la sua volontà di risolvere di fatto il contratto con una serie di comportamenti concludenti che si sono protrattinell’arco di svariati mesi.
E d’altro canto, sostenere che il datore di lavoro possa risolvere un contratto con un dipendente solo avvalendosi del “licenziamento per giusta causa” – anche difronte ad un palese e reciproco “affidamento sull’avvenuta conclusione del contratto” – sarebbe quanto meno irragionevole da un punto di vista esegetico, e non ultimo contrario a quanto stabilito dagli articoli 41 e 38 della Costituzione che sanciscono rispettivamente la libertà dell’iniziativa economica privata e il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per quel “cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”.
Alcune nostre considerazioni
Perché dunque nel nostro caso, il datore di lavoro avrebbe dovuto mettere a rischio l’esplicazione della sua autonomia imprenditoriale facendosi carico degli eventuali rischi (un ipotetico giudizio) e dei costi (ticket NASPI) che sarebbero potutiderivare da un licenziamento disciplinare?
E perché sottoporre la provvidenza pubblica ad un esborso non giustificato atto a sostenere un fittizio stato di disoccupazione?
Domande queste a cui, il Giudice del Lavoro di Udine non solo è stato in grado di rispondere ma di trovare anche una soluzione di buon senso.
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