Iscrizione su diffida della cassa edile


E’ sempre più frequente che un’impresa, inquadrata in un determinato settore, si veda recapitare dalla locale cassa edile una lettera contenente una diffida ad iscriversi.

E’ anche frequente che la stessa impresa, pur non avendo ricevuto alcuna notifica, si veda all’improvviso negare il DURC in quanto nel suo documento è stata inserita anche la cassa edile.

Arriva la diffida della cassa edile; cosa fare?

In questi casi la prima cosa che viene in mente all’imprenditore è quella di cercare di chiarire tutto con i propri professionisti che si attivano presso le varie sedi istituzionali fino ad esaurire tutte le risorse ed i tempi a loro disposizione che vengono di solito dedicati solo per tentare di risolvere il problema sotto il profilo amministrativo.

A ridosso della scadenza del DURC, come vedremo, l’avvocato non potrà, salvo rare eccezioni, più svolgere alcuna funzione perché tutto è già avvenuto.

L’azienda dovrà accettare i moduli che gli vengono sottoposti perché il tempo stringe se è necessario il DURC o il DURC di congruità sul quale abbiamo già espresso ampie considerazioni critiche.

La normativa e i tempi stringenti delle prassi non lasciano spazio alle ragioni del diritto.

La questione, facendo ogni debita riflessione, deve essere risolta:

  1. sulla base dell’incertezza di appartenenza ad una categoria “tenuta” ad un inquadramento rientrante nell’edilizia;
  2. valutando, in caso di appartenenza totale od anche di un solo comparto di impresa, la legittimazione e legittimità di un obbligo di inquadramento alla cassa edile;

Entrambe le valutazioni richiedono tempo che, tuttavia, se dedicato esclusivamente al dialogo con gli enti, spinge la posizione aziendale fino alle porte delle scadenze che rendono il DURC essenziale e non rinviabile pur in presenza di illogicità amministrative e giuridiche talvolta evidenti.

Quando però i creditori bussano alla porta, i lavoratori chiedono di essere pagati nei termini e le scadenze di rateazioni, tasse e contributi si avvicinano, quel DURC diventa tanto importante che ogni potenziale sua illegittimità lascia il posto alla sopravvivenza del momento.

E’ in questo contesto che negli ultimi anni le imprese, spesso dopo avere assunto iniziative di informazione sull’obbligo di applicare questo o quel contratto collettivo ai fini retributivi ed anche ai fini contributivi, si vedono costrette ad abbandonare il loro diritto di ottenere chiarezza e giustizia per dare sfogo alle pretese dei creditori e delle amministrazioni che non intendono transigere od attendere i tempi necessari a fare chiarezza.

Le incompletezze argomentative rinvenibile in una pronuncia della Corte di Cassazione

Occorre precisare che la sentenza 9803/2020 della Corte di Cassazione, nel caso del noleggio di ponteggi sembra dar ragione ad una cassa edile che aveva avanzato la pretesa di inquadramento, tuttavia questa sentenza nelle argomentazioni avanzate dal ricorrente non è stata interessata a prendere in considerazione:

  • la legittimità, anche sotto il profilo costituzionale, delle norme che impongono l’obbligo di iscrizione da un ente bilaterale oneroso come la cassa edile;
  • la legittimità di una previsione normativa che si limiti soltanto a garantire ai lavoratori ed agli enti di previdenza (INPS ed INAIL) trattamenti non inferiori a quelli previsti dalla contrattazione collettiva più rappresentativa;

Appare poco coerente, infatti, che un sistema giuridico civile imponga alle imprese di iscriversi ad un ente bilaterale maggiormente rappresentativo per legge quale è la cassa edile che non è neppure sottoposta al controllo pubblico (es. Corte dei Conti).

I chiarimenti della Corte Costituzionale

Appare poco coerente anche che, dopo una serie di pronunce della stessa Corte Costituzionale che ha sancito la liberta di adesione sindacale e l’illegittimità dell’obbligo di fare applicare ad un datore di lavoro questo o quel contratto collettivo, nella prassi si giunga, attraverso lo strumento del DURC, al risultato in passato già più volte negato.

Alcune riflessioni giungono dalle affermazioni della Corte Costituzionale che con la Sentenza n. 51 del 2015 ha ribadito che:

” Con l’entrata in vigore dell’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007 si è assistito a una intensa attività ispettiva, promossa dal Ministero del lavoro, per ribadire che «in presenza di più “contratti collettivi nazionali di lavoro nello stesso settore merceologico vanno applicati i trattamenti economici previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative”», così come disposto dall’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, in relazione alle tipologie dei rapporti di lavoro instaurati alla luce del regolamento interno ex art. 6, comma 1, lettera a), della legge n. 142 del 2001 (circolari del Ministero del lavoro 9 novembre 2010 e 6 marzo 2012) ed in linea con specifici indici sintomatici di rappresentatività sindacale, individuati nella circolare del Ministero del lavoro 1° giugno 2012.

La giurisprudenza di legittimità ha confermato tale impostazione e ha sostenuto che «in tema di società cooperative […] al socio lavoratore subordinato spetta la corresponsione di un trattamento economico complessivo (ossia concernente la retribuzione base e le altre voci retributive) comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, la cui applicabilità, quanto ai minimi contrattuali, non è condizionata dall’entrata in vigore del regolamento previsto dall’art. 6, della legge n. 142 del 2001, che, destinato a disciplinare, essenzialmente, le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci e ad indicare le norme, anche collettive, applicabili, non può contenere disposizioni derogatorie di minor favore rispetto alle previsioni collettive di categoria» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 4 agosto 2014, n. 17583; in senso analogo, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 28 agosto 2013, n. 19832).

Anche questa Corte, chiamata di recente a pronunciarsi sulla medesima questione di legittimità costituzionale oggi sollevata (peraltro dal medesimo giudice) nei confronti dell’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, in riferimento all’art. 39 Cost., pur dichiarandola inammissibile, in ragione dell’inconferenza della norma sottoposta a scrutinio circa il thema decidendum demandato al giudice rimettente, precisava, con riguardo sia al predetto art. 7, comma 4, sia al connesso art. 3, comma 1, della legge n. 142 del 2001, che «[l]a finalità, perseguita da entrambe le norme, è quella di garantire l’estensione dei minimi di trattamento economico (cosiddetto minimale retributivo) agli appartenenti ad una determinata categoria, assicurando la parità di trattamento tra i datori di lavoro e tra i lavoratori» (sentenza n. 59 del 2013).

5.3.– Sulla base di quanto fin qui richiamato, risulta evidente che la censura sollevata dal Tribunale ordinario di Lucca si fonda su un erroneo presupposto interpretativo.

Il censurato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, congiuntamente all’art. 3 della legge n. 142 del 2001, lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost. Tale parametro è richiamato – e dunque deve essere osservato – indipendentemente dal carattere provvisorio del medesimo art. 7, che fa riferimento «alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative». Nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative (fra le tante, la sentenza già citata della Corte di cassazione n. 17583 del 2014).”

In conclusione

Deve essere chiaro che, una volta che l’impresa ha compilato la modulistica della cassa edile e si è impegnata ad osservare il ccnl a cui la stessa vincola il datore di lavoro, non ci sono più spazi per contestare.

La sottoscrizione di un contratto di mandato alla cassa edile chiude definitivamente la questione.

Con la sottoscrizione del mandato alla cassa edile tutto si sposta dal contesto legato alla contrattazione collettiva ed alla sua valenza erga omnes a quello determinato dalla LIBERA ADESIONE E DELEGA che il datore di lavoro si obbliga ad attuare.

Con la sottoscrizione del mandato alla cassa edile il rapporto si sposta dal diritto sindacale a quello civile perché si tratta di un nuovo rapporto che prende forza dal documento e non più dalla contrattazione collettiva.

La partita relativa all’obbligo di versare somme ingenti, quali sono i contributi per cassa edile, invocando un obbligo di legge a favore di un soggetto determinato, impone valutazioni ed iniziative delicate e complesse che non possono essere prese quando ormai il rapporto di mandato è in corso.

Le possibili iniziative sono e rimangono sempre delicate in relazione all’entità degli importi che muove la questione dell’obbligo e della posta in gioco; l’impresa.

Un’azienda inquadrata nel settore metalmeccanico se costretta ad iscriversi alla cassa edile è tenuta anche ad applicare il ccnl che la legittima (vedasi modulistica delle varie casse edili ed i relativi ccnl che non lasciano spazio di libero dissenso) sulla base dell’operatività effettiva?

  • Fino a che punto?
  • Con quale incidenza dei nuovi costi?
  • E la posizione dei 5 anni precedenti come la si definisce?

Una variazione di inquadramento e l’iscrizione alla cassa edile possono certamente creare ad un’azienda un aumento improvviso dei costi che può arrivare ad incidere per diverse migliaia di euro all’anno e quindi è in grado di collocare all’improvviso l’azienda fuori mercato, ma, anche ammesso che il datore di lavoro sia in grado di modificare all’improvviso l’assetto dei preventivi, per il pregresso come sarà possibile rimediare?

Le iniziative di difesa sono complesse e richiedono un notevole sforzo pluridisciplinare in ragione della normativa e delle prassi che non rendono rapida e agevole una soluzione.

Occorre infatti procedere con una corretta ricostruzione dei fatti laddove si volesse attivare un giudizio per verificare la effettiva portata degli obblighi di legge nel senso di distinguere il trattamento non inferiore al questo o quel ccnl dall’applicarlo con tutti gli oneri e contributi a soggetti privati non tenuti ad osservare le regole di buona condotta contabile (ovvero non soggette al controllo della Corte dei Conti).

Il fatto che gli imprenditori sono soliti affidarsi ai professionisti della mediazione con gli enti e, sperando fino in fondo di riuscire a chiarire la loro posizione, prendono in considerazione una attività difensiva solo dopo avere esaurito tutti i termini per ottenere il DURC, è il punto di svolta.

Non essendo possibile creare una schermatura giuridica partendo, con solidi argomenti, solo quando mancano tre o quattro giorni alla scadenza del DURC, al datore di lavoro di solito non rimane che abbassare la testa ed accettare quello che i professionisti dediti solo al dialogo e non anche alla difesa, gli hanno, sapientemente, preparato; la totale abdicazione.

Quello che spesso sfugge, infatti, è che il DURC non si ottiene solo con la scorciatoia del pagamento (od ottenendo una dilazione con rinuncia a far valere il diritto alla contestazione), ma anche proponendo un giudizio ben argomentato e strutturato.

Ovviamente pur facendo una valutazione dei costi (anche incidentali) e dei benefici, ogni iniziativa deve essere intrapresa per tempo e con una precisa strategia che non può essere preparata in fretta e soltanto prima dello spirare dei termini per il DURC.

Purtroppo  la regola che sta facendo strage di imprese è quella di rivolgersi al legale quando sono passati quattordici giorni dalla ricezione del nuovo invito a regolarizzare  ovvero quando ogni azione legale (che, ammesso e non concesso che si disponga di atti già pronti, richiede circa un mese per arrivare dal corredo del ricorso al deposito e dopo l’assegnazione del ruolo e l’emissione del decreto di fissazione della prima udienza, alla notifica) .

Il diritto al DURC in pendenza di giudizio è sancito dall’art.lo 3 del D.M. 30 gennaio 2015 ed ignorarne la vigenza -inducendo un’azienda a pagare anche quando avrebbe valide ragioni per chiedere un accertamento giudiziale- costituisce un comportamento da valutare sotto profili ben diversi da quelli fin qui considerati.

Il nostro studio è a disposizione, ma solo se i termini per approfondire, valutare, decidere ed eventualmente redigere atti, non sono già stati consumati da titubanze ed attese di risposte di altri professionisti che fin dall’insorgere del problema non si sono attivati per valutare il problema della legittimità o meno della valenza erga omnes del ccnl di cui è pretesa l’applicazione.

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About Avv. Vito Tirrito

Avvocato del lavoro. Tutela negli accertamenti INL-INPS-INAIL e nelle cause di lavoro.