E’ legittimo il versamento di quote di iscrizione sindacale in percentuale CIG?
Nelle ultime ore ha creato stupore e notizia il fatto che alcune organizzazioni sindacali potranno attingere, con un indubbio giovamento economico, a percentuali di varia entità sugli istituti di sostegno pubblico stanziati dal Governo nell’ambito delle manovre straordinarie dirette a fronteggiare l’epidemia COVID 19.
Sebbene alcune organizzazioni sindacali abbiano rinunciato a far valere le convenzioni con l’INPS, la questione rimane di piena attualità e merita alcune riflessioni
Riflessioni che devono necessariamente muovere dalla circolare INPS n. 166 del 29 dicembre 2010 che fornisce istruzioni sulle modalità di riscossione dei contributi ceduti dagli iscritti in percentuale sugli istituti di disoccupazione od integrazione salariale.
Nello specifico la circolare INPS 166/2010 canalizza alla CGIL il:
– 3 % sull’indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti ridotti;
– 0,50% sulla CIG edile, ordinaria e straordinaria;
– 0,80% sui restanti trattamenti (CIG ordinaria e straordinaria, CISOA, indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali, trattamenti speciali di disoccupazione, indennità di mobilità e sussidio per lavori socialmente utili).
Tali previsioni fanno sorgere l’interrogativo se le stesse siano conformi o meno all’ordinamento giuridico e al dettato costituzionale.
E’, quindi, in primis opportuno ripercorrere le più significative fasi normative che hanno portato alla formulazione della predetta circolare INPS.
AGRICOLTURA – L’ORIGINE
Legge 27 dicembre 1973, n. 852 – Proroga della legge 5 marzo 1963, n. 322, recante norme per l’accertamento dei lavoratori agricoli aventi diritto alle prestazioni, previdenziali ed assistenziali. (GU Serie Generale n.334 del 31-12-1973 – Suppl. Ordinario)– all’art.lo 2 aveva stabilito che:
I lavoratori agricoli beneficiari dell’indennita’ ordinaria e del trattamento speciale di disoccupazione hanno diritto di versare i contributi associativi alle federazioni di categoria aderenti alle confederazioni sindacali a carattere nazionale rappresentate nel CNEL, attraverso trattenute sulle indennita’ predette da autorizzarsi con delega personale volontaria sottoscritta dallo stesso titolare della prestazione.
Le modalita’ attraverso cui effettuare la trattenuta saranno stabilite tra i rappresentanti delle organizzazioni sindacali interessate e l’Istituto nazionale della previdenza sociale con accordo diretto che dovra’ prevedere il rimborso all’INPS delle spese incontrate per l’espletamento del servizio.
ALLARGAMENTO A TUTTI I SETTORI
L’art. 18 della legge 23 luglio 1991 n. 223 al titolo “Norme in materia di contributi associativi” aveva previsto che:
- Il diritto di avvalersi del sistema delle trattenute per il versamento dei contributi associativi, previsto dall’articolo 2 della legge 27 dicembre 1973, n. 852, è esteso ai beneficiari dell’indennità di mobilità, dei trattamenti di disoccupazione ordinari e speciali e dei trattamenti ordinari e straordinari di integrazione salariale nel caso di pagamento diretto di questi ultimi da parte dell’INPS.
- Il secondo comma dell’articolo 26 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è sostituito dal seguente: “Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale”.
- Nei casi di pagamento diretto dei trattamenti di integrazione salariale, il datore di lavoro è tenuto a dare comunicazione all’INPS dell’avvenuto rilascio della delega secondo le modalità previste dalla legge, a conservare tale delega ai fini di eventuali verifiche ed a fornire ogni altro elemento che dovesse rendersi necessario per l’effettuazione del servizio”.
Ne consegue che con l’entrata in vigore della predetta norma l’art.lo 26 della legge 300/70 (Statuto dei Lavoratori) risultava così riformulato:
1) I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale.
2) Le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscano la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale.
3) Nelle aziende nelle quali il rapporto di lavoro non è regolato da contratti collettivi, il lavoratore ha diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all’associazione da lui indicata.
La circolare INPS n. 148 del 13 maggio 1994 aveva ad oggetto la “Sintesi delle disposizioni in materia di integrazioni salariali ordinarie in favore dei lavoratori dipendenti da imprese dell’edilizia e affini nonche’ del settore lapideo” è stata richiamata dalla successiva circolare INPS n. 166 del 29 dicembre 2010 riguardante una Convenzione tra l’INPS e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) ai sensi dell’art. 18 della legge 23 luglio 1991 n. 223, per la riscossione dei contributi associativi sulle prestazioni temporanee dovuti dagli iscritti alle Organizzazioni sindacali aderenti. Istruzioni procedurali e contabili.
L’ABROGAZIONE REFERENDARIA DEL 1995
A seguito del referendum popolare l’art.lo 1, D.P.R. 28 luglio 1995, n. 313 ha abrogato i commi 2 e 3 del predetto articolo 26 e pertanto non trova più applicazione l’impianto normativo introdotto dall’art.lo 18 della predetta legge 223 del 1991.
Di fatto quella cancellazione del secondo e terzo comma dell’art.lo 26 della legge 300/70 ha lasciato ai lavoratori il diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale.
Al tempo stesso sono venute meno le precedenti prerogative delle associazioni sindacali atteso che, quanto abrogato, era il collegamento con un impianto giuridico di fatto oramai smantellato nelle sue ragioni di fondamento genetico delle obbligazioni.
Di fatto, alla luce dell’esito del referendum popolare per “le associazioni sindacali dei lavoratori”
…non appare più sostenibile un ….
“diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare, con modalità stabilite dai contratti collettivi di lavoro, che garantiscono la segretezza del versamento effettuato dal lavoratore a ciascuna associazione sindacale”
… né, in applicazione del predetto esito referendario, …
“nelle aziende nelle quali il rapporto di lavoro non è regolato da contratti collettivi, il lavoratore ha diritto di chiedere il versamento del contributo sindacale all’associazione da lui indicata.” .
LA NORMATIVA RESIDUALE
In considerazione di quanto sopra esposto, sono venuti meno:
- Il diritto delle organizzazioni sindacali di percepire i contributi sindacali dei lavoratori;
- Il diritto del lavoratore di chiedere il versamento del contributo sindacale;
Di conseguenza l’impianto normativo della legge 223 del 1991 appare essere stato svuotato di ogni significato. Infatti la soppressione di un diritto percettivo in capo all’organizzazione sindacale di percepire il contributi dei lavoratori associato al venire meno dei diritto del lavoratore di chiedere il versamento del contributo sindacale comporta una valutazione della successione delle leggi nel tempo e della sopravvivenza dell’art.lo 28 della legge 300/70 sulla repressione delle condotte antisindacali.
L’art.lo 15 delle preleggi stabilisce che le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore.
Appare di tutta evidenza che, pur in assenza dell’abrogazione dell’art.lo 18 della legge 223 del 1991, il venire meno del diritto delle organizzazioni sindacali a percepire i contributi dei lavoratori e del diritto dei lavoratori a chiedere il versamento del contributo sindacale diventa il punto di maggior rilievo della questione in quanto l’impianto di estensione normativa a sostegno del contributo sugli ammortizzatori sociali del comma 1 rimane privo del fondamento giuridico costituito dai successivi commi 2 e 3 dell’art.lo 26 della legge 300/70.
ASPETTI DI ATTUALE APPLICABILITA’
Si pone quindi oggi il problema di comprendere quale sia il fondamento normativo della circolare INPS n. 166 del 29 dicembre 2010, come detto, riguardante la “Convenzione tra l’INPS e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro); quale sia la legittimazione dell’Istituto ad operare, ai sensi dell’art. 18 della legge 23 luglio 1991 n. 223, per la riscossione dei contributi associativi sulle prestazioni temporanee dovuti dagli iscritti alle Organizzazioni sindacali aderenti.
Una tale legittimazione risulta, infatti, essere venuto meno a seguito del referendum popolare del 1995 che ha abrogato l’impianto normativo che consentiva all’INPS di operare per il recupero dei contributi associativi.
A seguito del referendum del 1995 la questione sembra poter essere affrontata solo attraverso l’esame delle norme di diritto comune e quindi del solo Codice Civile.
LO SCHEMA GIURIDICO CHE ASSISTE IL RAPPORTO INPS-LAVORATORE-SINDACATO
La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28269/05 a S.U. (seguita , da altre di segno sempre conforme: cfr., da ultimo, Cass. n. 1353/16) ha affermato che lo schema che si realizza – nel rapporto fra il lavoratore, il sindacato cui vanno versati i contributi e il datore di lavoro – va ricondotto a quello della cessione di credito (della quota di retribuzione pari ai contributi sindacali dovuti) ex art. 1260 c.c. in funzione di pagamento, cioè in funzione dell’adempimento dell’obbligazione sorta (in capo al lavoratore) con il negozio di adesione all’organizzazione sindacale. Al riguardo vedasi anche Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 dicembre 2016 – 2 marzo 2017, n. 5321Presidente/Relatore – Manna.
Il caso particolare richiede alcune considerazioni di natura amministrativa in quanto la disciplina civilistica sulla cessione dei crediti non risulta applicabile tout court anche ai rapporti obbligatori che coinvolgono la pubblica amministrazione (in riferimento all’art.lo 1260 Cass. Civ. Sez. 1 24 settembre 2007 n. 19571).
In primo luogo si deve considerare che l’art.lo 9 all. E della legge 2248/1865 (c.d. legge sul contenzioso amministrativo tutt’ora vigente) stabilisce che non può convenirsi cessione “se non vi aderisca l’amministrazione interessata”.
La convenzione è certamente adesione, tuttavia sembrano necessarie più ampie valutazioni per quanto riguarda la forma della cessione del credito quando una delle parti è una Pubblica Amministrazione.
LA DISCIPLINA DELLE FORMALITA’
Secondo l’art.lo 69, comma 1 del R.D. n. 2440/1923 “le cessioni, …., relative a somme dovute dallo stato, nei casi in cui sono ammesse dalle leggi, debbono essere notificate all’amministrazione centrale ovvero all’ente, ufficio o funzionario cui spetta ordinare il pagamento … Le cessioni … devono risultare da atto pubblico o da scrittura privata, autenticata da notaio.” .
Alla luce di tale disposizione, quindi, se ne ricava che:
- La cessione deve essere ammessa dalla legge;
- La cessione deve risultare da atto pubblico o scrittura privata autenticata;
- La cessione deve essere notificata (e non semplicemente inviata o consegnata) all’Ente.
Sul punto A si è già detto mentre sui punti B e C vi è giurisprudenza che ritiene che la cessione dei crediti vantati verso la pubblica amministrazione si perfeziona con la notifica all’ente della sola dichiarazione unilaterale di cessione, ma per essere opponibile al creditore, deve risultare da atto pubblico o scrittura privata autenticata accettata (Cass. Civile sez. 1 16 settembre 2002 n. 13.481) tuttavia tale aspetto, nella fattispecie, presenta non poche incertezze di tipo interpretativo derivanti dalla concorrente natura lavoristico-previdenziale della vicenda.
ASPETTI DI RILIEVO COSTITUZIONALE
DEL NON LAVORO
Le organizzazioni sindacali sono prese in considerazione in funzione della loro utilità sociale in favore del lavoro del quale dovrebbero svolgere ogni funzione di rappresentanza esponenziale.
Il non lavoro, quale è ogni indennità o sussidio, non può costituire alcun parametro di valorizzazione economica di tipo sindacale.
Il fatto che la Repubblica sia fondata sul lavoro (art.lo 1 Cost.) pone quindi alcune riflessioni anche in merito agli inderogabili doveri di solidarietà sociale (art.lo 2 Cost.). Doveri che possono essere finalizzati dalle organizzazioni sindacali solo a promuovere condizioni tali da rendere effettivo il diritto al lavoro nell’ambito di un più ampio concetto di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione (secondo quanto garantito dagli art.li 3 e 97 della carta costituzionale).
Orbene, le organizzazioni sindacali dovrebbero contribuire a rendere effettivo il lavoro traendo essi stessi un beneficio concorrente e proporzionato alla sua diffusione ed effettività. Laddove invece le organizzazioni sindacali percepiscano introiti dettati da un interesse contrario al lavoro, quale è ogni voce di integrazione salariale, di indennità di disoccupazione e di trattamenti speciali di disoccupazione, di indennità di mobilità e di sussidio per lavori socialmente utili, la loro stessa identità si pone in antitesi diretta con la funzione costituzionale che la loro natura impone.
La questione, quand’anche affrontata sotto il profilo della previsione di cui agli art.li 36 e 38 della Costituzione (riguardante le somme percepite dalla persona assistita dallo stato in quanto momentaneamente inoccupata o sospesa da ogni attività lavorativa) che mirano ad assicurargli i mezzi adeguati alle esigenze di vita porta a considerare che mai il sindacato dei lavoratori dovrebbe essere istituzionalmente incentivato alla non occupazione (Art.lo 97 Cost.). Sarebbe un incentivo per un fine contrario al valore che deve esprimere, un fine contrario al lavoro.
La questione si fa ancora più delicata nel momento in cui, in un sistema di DURC affidati ad enti bilaterali (es. Casse Edili), procedure incentivanti come i licenziamenti collettivi, partecipazione a commissioni di varia natura concessorio/valutativa, formazione degli atti necessari a fruire degli istituti (es. accordi aziendali per l’ottenimento della CIG) le medesime organizzazioni sindacali già considerate più rappresentative su base nazionale, risultano privilegiate rispetto alle altre.
Un privilegio che consiste nell’opportunità di accesso esclusivo e riservato (talvolta anche dal supporto di alcune istituzioni) a tali procedure e da cui deriva anche la possibilità di ottenere il tesseramento degli stessi lavoratori per i quali poi il sindacato diviene destinatario delle percentuali sopra illustrate.
L’epidemia globale che stiamo attraversando sta imponendo e imporrà a molte aziende e molti lavoratori di scommettere sul cambiamento.
Una scommessa che potrà essere vinta solo se anche le istituzioni ed i sindacati decideranno di sedersi al tavolo da gioco.
Il sindacato dovrà mutare pelle: non più paladino di una massa operaia contro il “padrone” (si noti che sono passati più di cent’anni dalla Rivoluzione d’ottobre) ma forza che guida i lavoratori nelle scommesse che gli stessi dovranno prendere insieme all’impresa in un (nuovo) contesto in cui la redditività aziendale diviene bene comune.

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