Il licenziamento della lavoratrice madre


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 475/2017, è tornata a pronunciarsi sul licenziamento della lavoratrice madre, delineando in modo molto chiaro l’impianto sanzionatorio ed i conseguenti rischi a cui si espone il datore di lavoro che proceda al licenziamento nel periodo protetto di cui all’art.lo 54 del D.lgs. 151/2001.

Tale disposizione sancisce il divieto di licenziare la lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.

La Corte di Cassazione con la citata sentenza ha riformato quanto deciso dalla Corte di Appello di Napoli, la quale aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice perché irrogato nel periodo di divieto di cui all’art.lo 54 e condannato il datore alla riassunzione della lavoratrice o, in mancanza, a risarcirle il danno nella misura di 5 mensilità ai sensi dell’art.lo 8 della Legge n. 604/1966.

La Corte di Cassazione, al contrario, ha affermato che il licenziamento operato in periodo di divieto è nullo e del tutto improduttivo di effettivi, con la conseguenza che il rapporto di lavoro va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio.

Ciò a prescindere dalle dimensioni dell’impresa.

Diversamente da quanto erroneamente sostenuto dalla Corte di Appello di Napoli, la Cassazione ha affermato che la disciplina contenuta nel D.lgs. 151/2001 non effettua alcun richiamo alle Leggi 604/1966 e 300/1970;

La nullità del licenziamento in periodo di divieto è dunque comminata ai sensi del solo art.lo 54 del D.lgs. 151/2001 ed è dunque del tutto svincolata dai concetti di giusta causa o giustificato motivo.

Il licenziamento è nullo perché lo prevede il D.lsg. 151/2001 ed in quanto nullo è improduttivo di effetti (quindi inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro), con conseguenze dirompenti da un punto di vista risarcitorio per l’impresa.

Il datore di lavoro è, infatti, costretto a rimettere in servizio la lavoratrice e corrisponderle tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento fino alla re-immissione nel posto di lavoro.

Questo cosa vuol dire in concreto?

Vuol dire che se la causa promossa dalla lavoratrice dura, ad esempio, 3 anni (solo in primo grado) la ditta, se soccombente, sarà costretta a riprenderla in servizio e a corrisponderle tre anni di retribuzioni, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per l’intero periodo.

La delicatezza che accompagna ogni tipo di licenziamento è, dunque, notevolmente amplificata nel caso di licenziamento di una lavoratrice madre.

Molta cautela per il datore di lavoro

Infatti, il datore di lavoro non dovrà solo fare attenzione a non irrogare il licenziamento nel periodo di divieto ma dovrà, altresì, prestare molta attenzione a non irrogare un licenziamento che possa presentare profili di discriminatorietà ricollegati o ricollegabili alle mutate esigenze di vita della lavoratrice dopo la nascita del figlio.

Si ricorda, infatti, che il licenziamento discriminatorio, ai sensi dell’art.lo 18 della Legge 300/1970, è nullo e la ditta sarà tenuta (a prescindere dalle sue dimensioni) a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro o in alternativa a corrisponderle un indennità risarcitoria pari a 15 mensilità (la scelta spetta alla lavoratrice), a pagarle un risarcimento commisurato a tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino al giorno di effettiva reintegra e che non potrà essere in ogni caso inferiore alle 5 mensilità, nonché a versarle i contributi previdenziali ed assistenziali relativi all’intero periodo di estromissione dal lavoro.

Quanto sin qui brevemente esposto rileva come siano molteplici le criticità che accompagnano il licenziamento di una lavoratrice madre.

Per consultare la sentenza: Cass 475-2017