La Circolare inl N. 7/2019 entra nuovamente nel merito di una questione molto dibattuta sul piano economico, sindacale e politico.
Si tratta della possibilità che hanno gli istituti previdenziali di revocare, anche a posteriori, i benefici contributivi che l’azienda ha ottenuto nel corso del quinquennio precedente, sulla base di una valutazione circa l’osservanza o meno dei contratti collettivi.
L’osservanza della contrattazione collettiva più rappresentativa è quindi ritenuta una condizione fondamentale.
Il problema della fruizione dei benefici contributivi concessi per legge ai datori di lavoro si sposta quindi dai normali requisiti occorrenti per ottenerli ai requisiti di “osservanza” dell’ambito contrattuale collettivo.
L’osservanza della contrattazione collettiva non è stata lasciata al caso e quel riferimento è stato vincolato alla maggiore rappresentatività del CCNL stesso.
A questo punto la questione si sposta su quale sia il contratto collettivo più rappresentativo e sul fatto che si debba osservare o meno quel contratto o si debba invece dare risalto solo ai suoi contenuti.
Le circolari emanate prima del maggio 2019 lascivano capire che il punto di riferimento era solo questo o quel contratto collettivo sia in senso normativo che economico.
Durc negativo: la nuova circolare
La nuova circolare si esprime ora nel senso che:
“In particolare si segnala, fra le condizioni che subordinano il godimento dei benefici, quella del “rispetto degli accordi e contratti collettivi (…)”.
A tale riguardo e al fine di verificare se il datore di lavoro possa o meno fruire dei benefici, il personale ispettivo dovrà svolgere un accertamento sul merito del trattamento economico/normativo effettivamente garantito ai lavoratori e non un accertamento legato ad una formale applicazione del contratto sottoscrittodalle “organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
La novità nei contenuti della circolare INL n. 7/2019 è tale da consentire una nuova valutazione delle posizioni aziendali non più articolata sull’osservanza di questo o quel contratto considerato alla stregua di un “contratto corporativo”, ma riferita ai contenuti della contrattazione collettiva maggiormente rappresentativa.
L’importanza di rivolgersi subito ad un avvocato
L’impresa, in caso di inizio della procedura per la revoca dei benefici contributivi, potrà utilmente rivolgersi ad un consulente del lavoro o commercialista per far riscontrare la linearità della propria posizione datoriale.
Tuttavia, se tale iniziativa non porta risultati tangibili tali da evitare la revoca del DURC, sarà opportuno rivolgersi senza ritardo ad un avvocato per contestare giudizialmente le pretese dell’INPS o dell’INAIL sia quando si tratta di allineamento a certi contratti collettivi anziché ad altri, sia quanto si tratta di altre ragioni fondanti la pretesa di premi o contributi non dovuti.
Infatti, al di la della tendenza al dialogo al quale consulenti del lavoro e commercialisti sono storicamente affezionati, se il durc viene revocato, il dialogo instaurato non avrà alcun effetto sulla successiva revoca dei benefici contributivi.
Una volta che il DURC è revocato diventa prassi la revoca dei benefici a prescindere dal fatto che a monte vi sia stato un errore di valutazione o di procedura da parte dell’INPS.
A stabilire le conseguenze dell’errore di procedura da parte dell’INPS è stata la Corte di Cassazione con la sentenza 25 ottobre 2018 n. 27109.
La stessa Corte, guardando all’erroneo percorso di formazione burocratica della revoca del DURC, ha affermato che anche se l’INPS ha sbagliato nel non procedere secondo norma di legge, la pretesa contributiva è comunque legittima.
Più precisamente la sentenza riporta
“non si può ritenere che la mancata segnalazione dell’irregolarità ostativa al rilascio del Durc, da parte dell’Inps, determini l’inesigibilità delle differenze contributive rispetto agli sgravi, così rovesciando sull’ente previdenziale gli effetti dell’inosservanza di obblighi, quali sono quelli inerenti la regolarità contributiva, che fanno capo, in primis, al datore di lavoro. Semmai, la violazione degli obblighi procedimentali da parte dell’ente previdenziale può comportare una sua responsabilità risarcitoria, per l’impedimento creato al realizzarsi della fattispecie sanante e perdita della chance di fruire degli sgravi, ove si dimostri che l’inadempimento dell’ente ha comportato causalmente un tale danno, ma non è questo l’oggetto di questa controversia.
Si deve dunque ritenere che la sentenza impugnata non abbia fatto corretta applicazione dell’art. 1, co. 1175 cit., allorquando ha ritenuto che l’omessa segnalazione, nell’aprile 2009, delle irregolarità sussistenti, fosse in sé ostativa al recupero delle differenze contributive.”
Quindi, se non è ancora stato un DURC revocato, ben può adoperarsi per la rettifica della posizione il consulente aziendale.
Se invece il DURC è già stato revocato e con esso anche i benefici, la questione dovrà essere affrontata con un diverso bagaglio difensivo. Quello legale di tipo risarcitorio.
Alcune riflessioni storiche e giuridiche
Tutto parte dalla legge 296 del 2006.
Quella norma apparentemente logica contiene, al suo interno, equivoci che le istituzioni, altalenando, hanno trasformato in vere e proprie tasse indirette. Tasse finalizzate al sostentamento di alcune sigle sindacali per conferimento amministrativo di soggetti di posizione dominante e senza alcuna garanzia di rappresentatività democraticamente apprezzabile ai sensi dell’art.lo 39 Cost.
La serie di interpretazioni che, partendo dall’art.lo 1 della legge 296/2006 comma 1175 in riferimento al “rispetto” degli “accordi e contratti collettivi” hanno fatto un percorso che desta interesse e preoccupazione al tempo stesso.
I riferimenti a quelli stipulati da organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale meritano attenzione.
Il problema è sempre stato quello di stabilire se oggetto dell’intervento pubblico debba limitarsi agli aspetti oggettivi od invece, investire anche quelli soggettivi.
Fino a metà 2019, seppure con un’ampia cortina fumogena, la scelta delle istituzioni è stata quella di favorire l’individuazione soggettiva di certi sindacati ritenuti, o meglio, presunti, rappresentativi a prescindere.
A seguito di tale considerazione è spesso stata fatta l’estensione a quei contratti collettivi sottoscritti da quei soggetti senza curarsi dei contenuti dei medesimi.
Il risultato è che in tal modo si sono obbligati tutti i datori di lavoro di qualche settore in particolare a versare le somme previste per gli enti bilaterali solo a quelli formati da quelle organizzazioni favorite dal sistema e si sono escluse le altre.
Di fatto l’intervento pubblico ha certamente turbato e tentato di canalizzare somme di denaro su certe organizzazioni sindacali anziché su quelle prescelte dalle parti sociali aziendali.
Di fatto tale impostazione amministrativa è di tale valenza coercitoria al punto da divenire una sorta di tassa sul lavoro anziché di una scelta di previdenza collettiva.
Quanto sopra appare ancora più irrispettoso dei principi costituzionali se si pensa che, a dispetto di quanto previsto dagli articoli 36, 39 e 97 della Costituzione, non è mai stata posta in essere alcuna previsione di vigilanza sulla destinazione delle somme che i sindacati incamerano attraverso gli enti bilaterali.
Non risulta a questo studio che siano mai state poste in essere attività di vigilanza sugli enti sindacali o di previdenza sugli organismi bilaterali e loro flussi economici o su quelli sindacali né gli stessi sono soliti pubblicare i loro bilanci.
In un momento in cui tutto è e sarà tracciato con la moneta elettronica un minimo di riscontro sulla destinazione delle somme prelevate da situazioni che incidono sul costo del lavoro sarebbe istituzionalmente doveroso.
Evidentemente scoperta la posizione della pubblica amministrazione che si era sbilanciata in una serie di interpretazioni che apparivano di parte, il tiro è stato parzialmente corretto con l’emanazione della circolare n.7/2019.
La circolare, pur non disponendo alcunché per quei poteri di vigilanza delegati dalla legge 628/61 e D.L.vo 124/2004, ha attenuato la morsa costrittiva dei pagamenti a favore di alcuni sindacati.
Ora l’interpretazione è stata edulcorata con un “si ritiene che anche il datore di lavoro che si obblighi a corrispondere
ai lavoratori dei trattamenti economici e normativi equivalenti o superiori a quelli previsti da tali contratti”.
Equivalente o superiori sono termini epocali.
Ciò significa che per la prima volta le istituzioni non designano più certe sigle sindacali come soggetti aventi titoli nobiliari (alla stregua dei vecchi sindacati corporativi), ma conferiscono loro soltanto valenza di riferimento economico minimo.
Quello che doveva da sempre essere e mai è stato se non, seppure con limiti discutibili, solo sul piano contributivo.
E’ talmente importante che si giunga a chiarezza che lo stesso ispettorato nazionale del lavoro, contrariamente a quanto aveva fatto che tutta un’altra serie di circolari, ha dovuto fare riferimento alla frase “possa legittimamente fruire dei benefici normativi e contributivi indicati dall’art. 1, comma 1175, della L. n. 296/2006.”
La specifica “ciò, pertanto, a prescindere di quale sia il contratto collettivo “applicato” o, addirittura, a
prescindere da una formale indicazione, abitualmente inserita nelle lettere di assunzione, circa la
“applicazione” di uno specifico contratto collettivo”; né è l’ulteriore prova.
Ma la questione non è ancora esaurita in quanto vi sono settori che tutt’ora contribuiscono a fornire alle casse dei sindacati “agevolati” dalle istituzioni flussi di denaro per diversi miliardi di euro all’anno; senza alcun vincolo di destinazione o vigilanza ex L. 628/61 e D. L.vo 124/2004.

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