Il Giudice del Lavoro di Lucca decide sul contributo commercianti.
Il caso sul quale si è espressa la sentenza riguarda un verbale ispettivo in virtù del quale l’INPS sostiene una prevalenza di attività commerciale rispetto a quella agricola di cui all’art.lo 2135 c.c. di un canile.
La ricorrente, con il ricorso al Giudice del Lavoro, voleva dimostrare che l’attività non è assoggettabile al contributo commercianti per due motivi.
Il primo riguarda la carenza di una concreta ed abituale attività lavorativa.
Il secondo riguarda la classificazione dell’attività, secondo la ricorrente, di tipo agricolo.
Secondo la ricorrente la pretesa dell’INPS si fonda sull’errata applicazione dell’art.lo 1 comma 203 della legge 662 del 1996: “Il primo comma dell’art. 29 della legge 3 giugno 1975, n. 160, è sostituito dal seguente: “L’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali di cui alla legge 22 luglio 1966, n. 613 e successive modificazioni ed integrazioni, sussiste per i soggetti che siano in possesso dei seguenti requisiti:
a ) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto di vendita;
b ) abbiano la piena responsabilità dell’impresa ed assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione. Tale requisito non è richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto di vendita nonché per i soci di società a responsabilità limitata;
c ) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza;
d ) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri o ruoli“.
Se la ricorrente fosse soggetta alla predetta disciplina avrebbe dovuto essere esercente attività commerciale e titolare di specifica licenza di pensione per cani.
Nessuna attività esercente il commercio le è attribuibile e nessuna licenza di pensione per cani è stata ottenuta da parte della ricorrente.
L’esercizio di ogni attività che comporti il ricovero di animali, permanente o temporaneo, di proprietà del titolare o di proprietà di terzi (c.d. “stallaggio”,è soggetto a licenza, oggi sostituita dalla SCIA in virtù di quanto previsto dall’art.lo 86 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (T.U.L.P.S.) “Non possono esercitarsi senza licenza del Questore….locali di stallaggio e simili”.
La ricorrente invece, oltre ad allevare i cani per scopi riproduttivi, risulta affidataria della cattura e ricollocazione degli animali e quindi di imprenditore agricolo.
Gli imprenditori agricoli hanno una loro disciplina previdenziale e non sono soggetti alla normativa riservata agli imprenditori commerciali.
Le attività cinotecniche (così precisamente si chiamano le attività di allevamenti per cani) sono disciplinate dalla legge 23 agosto 1993 n. 349 e dal D. M. 28 gennaio 1994 (G.U. n. 40 del 18.2.1994).
La legge 349/93 all’art.lo 2 prevede che “L’attività cinotecnica è considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto”.
L’unico articolo del D.M. 28 gennaio 1994 prevede che “Non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero inferiore alle trenta unità”.
Volendo interpretare la suddetta normativa si deve fare riferimento, per analogia, alla legge 219 del 10 dicembre 2012 che equipara il figlio adottato a quello naturale.
Ne consegue che anche l’animale catturato e tenuto in custodia temporanea finalizzata all’affido non è assolutamente equiparabile all’animale lasciato in pensione, ma tale gestione è assimilabile, anche sotto il profilo giuridico, a quella dell’allevamento degli animali finalizzato alla nascita per la vendita.
Peraltro il corrispettivo per la cattura, sostentamento e ricerca adottiva degli animali, è l’evidenza economica di una attività paragonabile alla nascita ed alla successiva vendita.
Secondo la definizione dell’art.lo 2.135 del codice civile:
–“È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse“.
Il processo
Nel corso dell’istruttoria sono stati sentiti i testimoni i quali hanno tutti evidenziato la mancanza di abitualità e prevalenza del lavoro della ricorrente che si recava sul posto solo al bisogno e non con l’abitualità richiesta dalla legge.
La sentenza, pertanto, tenendo conto delle risultanze istruttorie, si è espressa nel senso che l’INPS avrebbe dovuto dimostrare i due requisiti richiesti dalla legge ovvero l’abitualità e la prevalenza.
Non avendolo fatto l’INPS è stato dichiarato soccombente e condannato alla refusione delle spese legali.
Ecco la sentenza:

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