Contributi per lavoro autonomo dovuti su tutti i redditi.


Alcuni casi concreti che si incontrano nell’ambito dell’imponibile previdenziale ci obbligano a domandarci se i lavoratori autonomi devono pagare i contributi IVS commercianti o artigiani solo sui redditi dell’attività presso alla quale si dedicano con il loro lavoro ovvero se l’obbligo di versare i contributi a percentuale investe anche i redditi che derivano da posizioni diverse o da altre attività.

Il pensiero più immediato riguardo alla contribuzione da versare per le attività professionali, va alla relazione che sembra esserci tra attività lavorativa e contributi previdenziali. Questo è quello che nell’immediatezza si presenta agli occhi di chiunque si pone il problema di capire cosa sono i contributi assicurativi e previdenziali.

Orbene questa visione è via via stravolta sia da norme apparentemente poste a tutela di questa o quella categoria sia da pronunce giurisprudenziali che esorbitano dal comune sentire dei principi fondamentali di civiltà ed uguaglianza.

Non esiste al momento un contesto normativo e giurisprudenziale capace spiegare e convincere in profondità il giurista non orientato il motivo per il quale un lavoratore autonomo deve versare il contributi sul reddito percepito per l’affitto di un immobile mentre un lavoratore subordinato no.

Gli attuali orientamenti giurisprudenziali non ce lo consentono; anzi, si percepisce un disagio che nasce dal diverso considerare del lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo sempre più aggredito da visioni che prima o poi dovranno essere affrontate sul piano della discriminazione tra categorie o, meglio ancora, della discriminazione dipendente da una sorta di presunzione di benessere economico basata solo su convinzioni ideologiche.

Il principio a cui si ritiene di fare riferimento è l’art.lo 21 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea il quale afferma che “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.“.

La questione è stata affrontata dalla Corte di Cassazione che si è espressa a favore dell’INPS.

Come ha ragionato la Corte di Cassazione.

Si tratta, cioè, in questo caso, di ricostruire il quadro normativo riferito all’imponibile contributivo degli iscritti alla gestione commercianti/artigiani.
Tale problematica è stata esaminata da questa Corte di legittimità e si è consolidato un orientamento (Cass. n. 21540 del 2019; Cass. n. 23790 del 2019; Cassazione n. 24096 del 2019; Cass. n. 29779 del 2017; Cass. n. 26958 del 2019; Cass. n. 18822 del 2021) al quale va adesso data continuità.
Data per risolta, come è nel caso di specie, la questione dei presupposti per l’iscrizione alla apposita gestione, qui si tratta di stabilire se l’obbligo contributivo vada parametrato a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di persone nella quale egli non
svolge attività lavorativa e che ha per oggetto il mero godimento dei canoni di locazione.
Allo scopo occorre premettere che il D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 3 bis, convertito con modificazioni dalla L. 14 novembre 1992, n. 438, ha previsto che “A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per l’soggetti di cui alla L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 1, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi sì riferiscono”.
La disciplina previgente era contenuta nella L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 1, che prevedeva al comma 1 che “A decorrere dal 1 luglio 1990 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente”.
Con la nuova disposizione rileva “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex L. n. 233 del 1990, art. 1. Il legislatore ha dunque scelto di distinguere tra elementi sui quali si radica, quale fatto giuridico strutturale, il sorgere della tutela previdenziale in capo al lavoratore autonomo ed elementi ulteriori rispetto ad essi, in relazione ai quali si individua comunque la misura della contribuzione previdenziale dovuta.
La differente formulazione della norma realizza chiaramente un ampliamento della base imponibile contributiva, secondo un mutamento normativo che il
legislatore ha inteso perseguire, in connessione con il Corte di Cassazione – copia non ufficiale processo di armonizzazione della base imponibile
contributiva a quella valevole in ambito tributario.
Al fine di individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, occorre quindi per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali, e dunque in primo luogo al testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Il suddetto D.P.R. contiene distinte disposizioni onde qualificare i redditi d’impresa rispetto ai redditi di capitale: i primi, a mente dell’art. 55 (nel testo postriforma del 2004) sono quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, mentre l’art. 44, lett. e) (nel testo post-riforma del 2004) ricomprende tra i redditi di capitale gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRPEG (ora IRES).
Per i soci di società di persone opera il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi (D.P.R. n. 917 del 2016, art. 6, comma 3, del testo post-riforma del 2004).
Ed è proprio dal regime dettato per le società di persone che è derivato il principio, affermato dalla Corte Corte di Cassazione nella sentenza n. 29779 del 2017, secondo il quale ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, seppure diversi dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro oggetto della posizione previdenziale.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 354 del 7 novembre 2001, ha ben distinto tra la posizione dei soci (non lavoratori) delle società di capitali e quelli delle società di persone, ove ha ritenuto non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale del D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 3 bis, conv. con modif. in L. 14 novembre 1992, n. 438, il quale, sottoponendo a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali. Ha infatti rilevato che nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente rilievo, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di
ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di un’attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante; né la scelta del legislatore può ritenersi affetta da irragionevolezza, in quanto all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazioni previdenziali ai sensi della L. 2 agosto 1990, n. 233, art. 5, in base al quale la misura dei trattamenti è rapportata al reddito annuo di impresa.
E’ vero che la Consulta nel richiamato arresto ha rilevato che dall’art. 38 Cost., comma 2, non si desume un’intima e indefettibile correlazione tra contribuzione e reddito di lavoro e che anzi, le più recenti riforme in materia evidenziano sia il passaggio ad una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da ricomprendere non solo il corrispettivo dell’attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che nella attività stessa
rinvengono soltanto mera occasione, sia la convergenza, pur nella rispettiva autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale quanto alla definizione della base imponibile.
Tale tendenza all’ampliamento della base contributiva deve però di necessità essere contenuto entro i limiti delineati dal legislatore, non potendo giungersi ad estendere in via analogica la portata delle relative previsioni, disattendendo proprio il voluto parallelismo tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale.
Pertanto, nel caso di specie, il reddito d’impresa, tale per previsione del TUIR, tratto dalla partecipazione del coniuge collaboratore, quale socio accomandatario, alla s.a.s. … Immobiliare di …. & C., deve essere assoggettato a contribuzione nelle percentuali previste.

Senza null’altro aggiungere si riportano le più recenti sentenze in merito a quanto sopra trattato.

CASSAZIONE 17-7-23 N_20626
CASS 4-7-23 N_18892

Contattaci

per ricevere assistenza.