CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA sentenza 2.2.21 n. 11 – Una persona fisica sottoposta ad un procedimento sanzionatorio amministrativo ha il diritto di mantenere il silenzio se le sue risposte possono far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale.
E’ abitudine degli ispettori del lavoro, dell’INPS e dell’INAIL attingere direttamente dal datore di lavoro, spesso impaurito dal fatto di trovarsi sotto assedio da parte delle autorità, dichiarazioni autoincriminanti delle quali non gli rilasciano alcuna copia che invece poi utilizzano durante i processi.
La questione non sarebbe di per sé rilevante se non per il fatto che molto spesso tale dichiarazione viene verbalizzata come “spontanea”, non viene annotata sul verbale di sopralluogo, il malcapitato viene informato del fatto che chi non fornisce le notizie legalmente richieste dagli ispettori sarà deferito all’autorità giudiziaria per un procedimento penale ai sensi della legge 628/61 e non viene invece informato del fatto che sarebbe opportuno farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa davanti all’autorità giudiziaria anche tributaria. Di solito gli si chiede di indicare il consulente del lavoro delegato dall’azienda agli adempimenti previdenziali e di paghe.
Premesso che tale consulente non è un soggetto adeguato alla difesa per i motivi che abbiamo già trattato in passato, il problema è che tutto avviene senza che neppure vi sia la possibilità di ottenere l’intervento del garante del contribuente il quale è legittimato ad interloquire con le gerarchie degli uffici finanziari, ma non con quelli assicurativi e previdenziali del lavoro.
Se le garanzie previste dall’art.lo 12 dello statuto del contribuente (che si applicano agli accertamenti di competenza del personale ispettivo degli enti previdenziali) restano prive di concreta attuabilità significa che il giudice dovrebbe dichiarare nullo ogni verbale ispettivo formato in violazione di legge.
Tale principio, invece, è da anni completamente ignorato dai tribunali italiani i quali si attengono al principio che il giudice deve comunque accertare la fondatezza o meno del verbale andando a convalidare gli atti prodotti dagli istituti di previdenza assegnando a questi valore di prova e vanno a scavare nei documenti e circostanze deducibili da tali documenti fino addirittura in alcuni casi sostituendosi ed amplificando a posteriori le funzioni ispettive riservate alle autorità di vigilanza.
Le circostanze sono state finora tollerate dalla gran parte dei datori di lavoro e dei loro difensori che si rassignano di fronte alle produzioni documentali degli enti ben sapendo che nessuno è disposto ad andare contro una tendenza ormai accettata passivamente da tutto il mondo del diritto.
È diventato di comune dominio il fatto che il diritto finisca laddove comincia l’imprenditore.
Al di fuori dei Tribunali del lavoro il diritto conserva una sua più spiccata spontaneità istituzionale tanto che c’è stato qualcuno che di fronte all’eccessiva forzatura delle autorità ha trovato la forza ed il coraggio di tentare di affermare i principi fondamentali del diritto alla difesa.
La vicenda
Il 2 maggio 2012, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) (Italia) ha inflitto a alcune sanzioni per un ammontare complessivo di EUR 300 000, per un illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate commesso nel 2009.
Detta commissione ha altresì inflitto al predetto una sanzione di EUR 50 000 per omessa collaborazione. Infatti, DB, dopo aver chiesto, a più riprese, il rinvio della data dell’audizione alla quale era stato convocato nella sua qualità di persona informata dei fatti, aveva rifiutato di rispondere alle domande che gli erano state rivolte allorché si era presentato a tale audizione.
A seguito del rigetto della sua opposizione contro tali sanzioni, DB ha proposto un ricorso per cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione (Italia). Il 16 febbraio 2018, tale giudice ha sottoposto alla Corte costituzionale (Italia) una questione di legittimità costituzionale vertente sulla disposizione del diritto italiano in base alla quale è stata inflitta la sanzione per omessa collaborazione.
Tale disposizione sanziona la mancata tempestiva ottemperanza alle richieste della Consob o il fatto di ritardare l’esercizio delle funzioni di vigilanza di tale organismo, anche per quanto riguarda la persona alla quale la Consob addebiti un abuso di informazioni privilegiate.
La Corte costituzionale ha sottolineato che, nell’ordinamento italiano, le operazioni configuranti un abuso di informazioni privilegiate costituiscono, al tempo stesso, un illecito amministrativo e un illecito penale.
Ha poi rilevato che la disposizione in questione è stata adottata in esecuzione di un obbligo specifico imposto dalla direttiva 2003/6 e che essa costituisce attualmente l’attuazione di una disposizione del regolamento n. 596/2014 .
Detto giudice ha a questo punto interrogato la Corte in merito alla compatibilità di tali testi normativi con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e, più in particolare, con il diritto di mantenere il silenzio.
Come si è espressala Corte di Giustizia Europea con la sentenza n. 11/2021
La Corte di Giustizia Europea sottolinea che il diritto al silenzio, che è al centro della nozione di «equo
processo», osta, in particolare, a che una persona fisica «imputata» venga sanzionata per il
suo rifiuto di fornire all’autorità competente, a titolo della direttiva 2003/6 o del regolamento
- 596/2014, risposte che potrebbero far emergere la sua responsabilità per un illecito
passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua responsabilità penale.
La Corte precisa, a questo proposito, che la giurisprudenza relativa all’obbligo per le imprese di
fornire, nell’ambito di procedimenti suscettibili di portare all’inflizione di sanzioni per comportamenti
anticoncorrenziali, informazioni che potrebbero successivamente essere utilizzate allo scopo di
dimostrare la loro responsabilità per tali comportamenti, non può trovare applicazione in via
analogica al fine di stabilire la portata del diritto al silenzio di una persona fisica accusata di abuso
di informazioni privilegiate. La Corte aggiunge che il diritto al silenzio non può però giustificare
qualsiasi omessa collaborazione della persona interessata con le autorità competenti, come
in caso di rifiuto di presentarsi ad unʼaudizione prevista da queste ultime o di manovre
dilatorie intese a rinviare lo svolgimento di tale audizione.
La Corte nota, infine, che tanto la direttiva 2003/6 quanto il regolamento n. 596/2014 si prestano
ad un’interpretazione conforme al diritto al silenzio, nel senso che essi non impongono che una
persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui
potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi
carattere penale oppure la sua responsabilità penale. Date tali circostanze, il fatto che nei testi
normativi suddetti manchi un’esplicita esclusione dell’inflizione di una sanzione per un rifiuto
siffatto non può pregiudicare la loro validità. Incombe agli Stati membri garantire che una
persona fisica non possa essere sanzionata per il suo rifiuto di fornire risposte siffatte
all’autorità competente.
Vedi sentenza

- agevolazioni contributive assunzione - 25 Settembre 2023
- Contributi a percentuale. La Corte di Cassazione afferma che sono da assoggettare a contributo IVS anche i canoni di locazione di altre società del lavoratore autonomo - 21 Settembre 2023
- Fino a che punto i vizi della procedura ispettiva del lavoro possono avere effetti sull’atto esattivo? - 21 Settembre 2023